I Parchi degli Stati Uniti

imagePartiamo per i Parchi degli Stati Uniti.

Come sembra lontano Milano, oggi. Dopo gli aeroporti, le valigie da recuperare e gli orari da rispettare siamo finalmente in America. Voliamo su tutto l’altopiano centrale degli Stati Uniti. Sono ore in cui ognuno cerca di conquistare un finestrino. I nasi incollati ad osservare migliaia di chilometri senza case e palazzi. E’ il regno di uno steppa desertico ricca di ocra, rosa e rossi, intercalali dal verde e dall’azzurro dei corsi d’acqua. Nell’immaginario di noi gente dei Parchi italiani c’è tutta la curiosità e la trepido attesa di incontrare la natura selvaggia degli Stati Uniti.

Primo giorno
Il nostro gruppo, composto in gran parte da direttori di parchi nazionali e regionali italiani è diretto al Glacier Nationai Park, che, con il Waterton Lakes costituisce un’area protetta internazionale tra il Canada e gli USA.
Atterriamo a Missoula, nel Montana, lo stato in cui sopravvive maggiormente lo spirito dei pionieri. E’ una terra immensa, ricca di tutte le contraddizioni, le ingenuità, la forza di questo paese. Viaggiamo tra linde cittadine di stile anglosassone, chilometri e chilometri di un paesaggio sconfinato, dove a volte l’unica presenza umana sono i poveri agglomerati di capanne e camper dei natives, gli indiani d’America. La attraversiamo in due suburban 4X4. Ci fermiamo per strada intorno al Fleathead Lake, siamo affamati e l’incontro con una tipica steakhouse è davvero irresistibile, dopo tante ore di aereo. In un ambiente accogliente, un pò da film western, ci accolgono due simpatiche signore in cappellaccio da cow boy mentre nel sottofondo c’è una splendido musica country dei Montana Roses: sarà solo per effetto della vacanza, ma la bistecca e le potatine fritte sembrano davvero uscite da un fumetto di Tex Willer.

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Secondo giorno
In viaggio verso il Glacier un dolce paesaggio di pianure ondulate, coltivate a graminacee, tra tanti pascoli con mucche allo stato brado. E’ il regno dei grandi ranch. Dovunque ci sia dell’acqua ci sono anatre e qua e là pascolano branchi di cervi mulo.
Il cielo è pieno del possente volo di diverse specie di rapaci. La presenza umana, qui dove la densità abitativa è tra le più basse degli Stati Uniti, non ha distrutto la ricchezza faunistica di questo territorio. Giungiamo quindi a Glacier, quinto parco istituito nel 1910, 500.000 ettari di estensione. Un paesaggio alpino, assolutamente unico nel panorama della natura protetta degli States. Il naturalista americano John Muir lo definì il posto che più di ogni altro ti fa dimenticare le preoccupazioni. Le vastisime foreste, tagliate da fiumi, sono abitate da una fauna ricchissima: grizzly, orsi grigi, puma, alci e cervi popolano questa grande area protetta.
Qui incontriamo Butch Forabee, vice sovrintendente del parco, che ci introduce ai compiti e agli ideali dei rangers del National Park Service.
Una notizia che conoscevamo, ma che non smette di stupirci è che questo signore, che scopriamo, è stato un sergente dei marines e da 35 anni lavora nei parchi, ha giurisdizione assoluta sul territorio amministrato. In altre parole, è come se un direttore di parco italiano fosse anche il pretore e il comandante dei carabinieri. Oggi l’Italia ci sembra davvero lontana!
Quest’area protetta è interessata da notevoli flussi turistici, nel 1995, 800.000 persone hanno visitato il parco. Non è facile, anche qui, tutelare la natura e consentirne la fruizione. Negli ultimi dieci anni ben nove escursionisti solitari e forse un pò troppo avventurosi, sono stati, infatti, preda dei grizzly.
La sera, intorno al fuoco di Big Sky ospiti della nostra guida italo-americana Michele, non parliamo che di orsi, cervi e cacciatori.

Terzo – quarto giorno
Il giorno dopo, quando finalmente entriamo a Yellowstone, capiamo perché il primo parco nazionale statunitense è così capace di sorprendere. Diecimila geyser e caldare, oltre 20.000 alci, 3500 bisonti e tutta l’altra incredibile fauna delle Montagne Rocciose ci stupiscono immediatamente. Il giallo che è nel nome lo scopriamo subito: questa terra è ancora viva, tra getti d’aria e acqua calda lo zolfo è dovunque, si intravedono pareti gialle, arancia, rosso… In oltre 800.000 ettari di parco, tra immense foreste, laghi, cascate, sorgenti, fiumi e steppe, ogni cosa è li a portata di mano. Senza quasi scendere dall’auto osserviamo uno scenario naturale di incredibile bellezza, ammantato da una bufera di neve improvvisa, in questo ottobre americano: la distanza di fuga dei coyote, come dei cervi è davvero minima, si fotografa la natura selvatica a distanze che da noi sarebbero davvero inconcepibili. E’ il frutto dell’assenza di caccia che dura quasi ininterrottamente dal 1872. Per noi naturalisti italiani, è, poi, davvero incredibile l’immensa foresta di abeti lasciati alla libera evoluzione. Sono i frutti del grande incendio del 1988 che si vedono dovunque. La rinnovazione è fortissima, la foresta rinasce, sotto i nostri occhi, tra le ceneri. Sembra ancora di vedere le fiamme che invadono oltre un terzo del Parco, qualcosa come trecentomila ettari, per il cui spegnimento intervennero oltre 25000 pompieri, con l’aiuto di circa un centinaio di mezzi terrestri e di elicotteri. In quella indimenticabile estate gli incendi avanzarono di venti chilometri al giorno, anche a causa di venti che soffiavano a quasi 100 km l’ora.
Eppure nessuna delle grandi bellezze del parco è andata perduta.
Giungiamo quindi all’Old Faithful. Il più famoso tra i geyser. Nel 1995 ben tre milioni di visitatori sono stati qui. E siamo sicuri che tanti, come noi, vorrebbero ritornare ad ascoltare il sordo, profonda respiro della terra…

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Quinto giorno
Lasciamo Yellowstone per entrare nei Grand Teton: un parco le cui superbe cime di granito emergono improvvise dalla pianura per raggiungere i 2400 metri, le pendici della catena sono costellate da diversi laghi glaciali, oltre cui si estende la vallata di Jackson Hole ammantata di salvia. Il lungo viaggio di trasferimento è addolcito da un paesaggio di grande bellezza mentre costeggiamo il fiume Snake.

Sesto giorno
Ormai viviamo nel nostro pullmino, scambiandoci sensazioni ed esperienze. Dalla lettura collettiva delle varie guide traiamo spunti per osservare meglio il paesaggio che scorre dai finestrini, proprio come un film della migliore letteratura di viaggio. Oggi ci aspettano 750 chilometri di percorso dai Grand Teton, attraverso Salt Lake City, per giungere in serata a St. George. Con i rigidi limiti di velocità americani il percorso ci fa apprezzare meglio la vita selvaggia che continua intorno a noi.. La visto di un coyote o di un branco di bisonti è l’occasione di una sosta per osservarli e provare a fotografarli. Se restiamo sulla strada gli animali non sembrano infastiditi, par quasi che per loro gli uomini in binocolo facciano porte del paesaggio.
Arriviamo quindi a Salt Lake City. La terra dei mormoni, una pagina di storia del West americano. Il lago salato, le paludi e la città sono davvero uno spettacolo improvviso dopo la relativa uniformità delle Montagne Rocciose.
Per gli americani le Rocky Mountains sono la spina dorsale della terra: una frastagliata catena di monti e creste spinta verso il cielo oltre 50 milioni di anni fa, che corre attraverso gli States tagliandoli in due. Lasciamo quindi, il Wyoming ed entriamo nello Utah dove, in serata, pernottiamo a St. George.

Settimo giorno
Ma all’alba ci muoviamo per raggiungere il parco di Zyon, situato nel cuore roccioso della contorta regione di canyon dello Utah meridionale. E’ uno spettacolo incredibile l’esplosione di cangianti colori di giallo e rosso.
Dalla porta del parco entriamo lungo la strada che attraversa tutto il canyon, tra alte pareti di arenaria, in strette e profonde gole percorse da veloci corsi d’acqua. Incontriamo Donald Falvey, uno dei più entusiasti direttori che abbiamo conosciuto, ci dice: “chiuderemo la strada e faremo entrare nel conyon solo i visitatori a piedi, in bici, a cavallo oppure con delle navette del parco”. E’ molto bello notare che tra noi tecnici italiani ed i colleghi americani c’è una totale identità di vedute sulle cose da fare per la tutela della natura e la stessa preoccupazione di come comunicare alla gente e con i politici. Attraversiamo il canyon riconoscendo gli otto strati diversi che vi si sono deposti in oltre 200 milioni di anni, per la presenza di mari interni, laghi, fiumi, vulcani e deserti che ricoprivano la regione. Le lisce rupi di arenaria Navajo, di un colore rosa crema, sono alte solo 6-700 metri. La fauna del parco è caratterizzata soprattutto dai puma e dalle linci rosse, nonché dal recente ritorno della pecora Bighorn anche se, soprattutto nelle calde estati che possono raggiungere i 38°, non è facile avvistarla.
Verso il tramonto giungiamo a Bryce Canyon. Secondo una leggenda indiano gli spiriti della terra si frasformavano in cattivi uomini. La divinità del coyote decise di punire questi spiriti tramutandoli in rocce: in questi blocchi di pietra erosi dal tempo sembra davvero di poterne scorgere i volti piefrificati.
Fermarsi a Bryce Point è una sensazione difficilmente descrivibile. I ranger hanno costruito un sentiero che, in leggera salita, conduce dal parcheggio all’osservatorio sull’anfiteatro naturale. Giunti sul dosso, la vista spazio su un mare di pinnacoli, di guglie, di creste, tutte dei colori di un tramonto infuocato, che emergono dal deserto. Il vento gelido della notte che cala fa sentire l’osservatore ancora più piccolo ed indifeso di fronte a questo scenario della natura. Ci sorprende piacevolmente trovare altri turisti italiani, rapiti come noi dall’incanto di un orizzonte che sembra non aver confini.

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Ottavo – nono giorno
Entriamo in Arizona attraverso la Monument Valley per recarci al Grand Canyon. Di questo luogo abbiamo tanto sentito parlare, sappiamo che è lungo 446 km ma, se si considerano anche gli affluenti, lo lunghezza aumento di migliaia di chilometri.
E’ luogo di grandi contrasti: le piogge oscillano dai 69 cm l’anno del lato nord ai 18 del fondovalle, in una giornata di maggio le temperature sul lato sud oscillano dai 26° ai 2°, mentre sulle rive del Colorado la massima tocca i 37° e la minima è 23°, sul lato nord ci sono almeno 508 cm di neve in inverno, mentre sul fondo del Canyon anche una spolverata è molto rara.
Il parco è stato istituito nel 1919 ed ampliato nel 1975, ma le frequentazioni umane dl queste terre risalgono ad almeno 500 anni fa.
In questa prima visita ai parchi americani la voglia di osservare e fotografare l’ambiente che ci circonda mal si concilia con le grandi distanze e la necessità di rispettare i limiti di velocità, anche perché nei parchi ogni reato è federale ed i nostri autisti non hanno voglia di dover fare i conti con la severità dei ranger. Giungiamo pertanto in ritardo all’appuntamento al Centro Visite del Grand Canyon, ma i colleghi del National Park Service sono pazienti e la loro accoglienza è davvero speciale.
Ci conducono al sentiero che dal Visitor Centre si affaccia sul canyon, su cui si allungano le prime ombre della sera, mentre osserviamo gli ultimi escursionisti che risalgono dal Colorado. Ci vorrebbe almeno una settimana per immergersi in questo fantastico paesagglo: purtroppo non abbiamo abbastanza tempo ma, negli sguardi rapiti, si legge tutta la voglia di tornarvi presto. Uscendo dal parco incontriamo un wapiti che bruca in una radura, mentre uno scoiattolo dalla coda bianca ci corre incontro incuriosito. Un bel regalo di arrivederci da un parco di 1.200.000 ettari, poco più grande dell’Abruzzo, che deve fare i conti anche con un furbo puma, che insiste od aggirarsi tra le auto dei visitatori in cerca di cibo, come ci raccontano preoccupati i colleghi ranger.
Lasciamo l‘Arizona ed entriamo nel deserto del Nevada, dove subiamo l’impatto dell’immensa distesa di luci di Las Vegas. Avvertiamo fisicamente la contraddizione di dover attraversare e pernottare in un luogo così artificiale e finto.

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Decimo giorno
Fuggiti via dalla plastica e dal cemento ci dirigiamo verso la California per visitare la Death Valley. Il viaggio attraverso il deserto di Amargosa ci introduce in un mondo completamente diverso: centinaia di chilometri di aridi suoli gialli punteggiati dalla presenza dei primi cactus… La strada è un segno del paesaggio che scorre all’infinito verso l’orizzonte. Anche l’apparire di una semplice stazione di servizio ci fa comprendere le difficoltà e la fatica umana, costata ai pionieri del secolo scorso nell’attraversare questa terra sui conestoga, i lenti e pesanti carri trainati da buoi.
In quest’immensa conca desertica, riparata dalla Sierra Nevada e dai monti di San Bernardino, siamo nel luogo più caldo e secco del nord America: le temperature estive superano i 46°. Tutte le specie animali e vegetali hanno dovuto adattarsi a questo ambiente naturale così estremo. Ben riparati nel nostro pulmino con aria condizionata ci dirigiamo, quindi, verso la Valle della Morte.
Se si esclude l’Alaska, la Death Valley è il più grande parco nazionale degli USA, con un 1.300.000 ettari di territorio, appartenenti al Deserto del Mojave. Contrariamente agli altri parchi che abbiamo visitato, non ci sono porte e pedaggi da pagare, ci dirigiamo quindi verso uno dei luoghi più famosi di questo viaggio: Zabriskie Point. Qui emergono le ossa della terra, come ha detto Eldon Hughes, direttore della lega per la difesa del deserto californiano. Dopo aver rimirato l’incredibile varietà di giallo e il formidabile colpo d’occhio sulla valle, ci dirigiamo verso la depressione di Bad Water, il punto più basso degli Stati Uniti, situato a 86 metri sotto il livello del mare. Il lago poco profondo che, nel primo periodo dell’Era Quaternaria ricopriva quest’area, è evaporato lentamente lasciando saline, fango e cumuli di sabbia. I colori delle pozze d’acqua sono davvero stupefacenti dopo due giorni di totale assenza d’acqua.
Al Centro Visitatori i ranger ci dicono, meravigliati, che siamo il primo gruppo italiano che non vi giunge in visita nei mesi di luglio – agosto. Lasciamo la valle per recarci a Visalia, dove pernotteremo. All’uscita dal deserto ci affacciamo sulle verdi vallate della California prospicienti la Baia di San Francisco: anche noi, come gli antichi pionieri, restiamo conquistati dalla tenera accoglienza di questo ambiente così familiarmente mediterraneo dopo tanta polvere ed arsura.

Undicesimo giorno
Nel tiepido mattino californiano ci alziamo presto per recarci verso l’imponente Sierra Nevada, dove, tra le più alte vette di questo stato, sono i parchi nazionali Sequoia e Kings Canyon, che, con una superficie totale di quasi 3500 km quadrati, si estendono sulla porte più alta ed accidentata della California. Nel 1849 lo corsa all’oro sradicò da queste terre gli indiani che vi vivevano. Migliaia di minatori, taglialegna e allevatori deturparono fortemente questi luoghi.
Intorno al 1870 John Muir sviluppò una forte azione per la tutela di questi posti, tanta che nei 1890 vi furono istituiti i due parchi nazionali. Sono aree piuttosto isolate: il 90% del territorio protetto è accessibile solo dai sentieri e nessuno dei 2600 stagni e laghi è raggiungibile in auto. Il ranger Bili Tweed le descrive come isole naturali in una California urbana. Nel nostro viaggio siamo alla ricerca dei più grandi alberi della terra, le sequole giganti (Sequoiodendron grganteum) le piante più vecchie hanno almeno 2500 anni di vita.
Centinaia di enormi esemplari con i massicci tronchi color ruggine vegetano nella Giant Forest a circa 2000 metri di quota. La più famosa è il celebre General Sherman Tree un albero gigantesco dei diametro di 9 metri e alto 84. il suo volume è stimato in circa 1470 metri cubi da cui (speriamo mai) si potrébbero costruire un centinaio di baite di montagna. Uno dei suoi rami superiori è lungo 24 metri per un diametro di due.
Al Centro Visitatori una bella esposizione didattrea consente a tutti di comprendere la complessa ecologia di questo ecosistema: la germinazione del seme di sequoia avviene solo su terreno concimato dall’incendio, la crescita della pianta è talmente lento da essere fortemente contrastata dalle altre specie che vi vegetano assieme.
Ad Àsh Mountain incontriamo Malinee Crapsey, direttrice del parco, che ci spiega che “ogni anno i ranger investono 1,5 milioni di dollari per gestire il fuoco e tagliare le specie concorrenti al fine di consentire alle sequoie di rinnovarsi”. A conclusione di questo lungo, un po’ faticoso, ma indimenticqbule tour attraverso alcuni tra i più bei parchi americani, questa direttrice ci fa molto pensare sul destino della conservazione della natura nella patria dei parchi nazionali: sono più gli europei che gli americani a visitare il Sequoia ci dice e fra gli americani che giungono qui non ci sono praticamente cittadini di origine messicana o asiatica, attirati più dal balenio delle città che dal fascino di questa natura unica al mondo”. E noi che stiamo lavorando a costruire un giovane sistema di aree protette in Italia, sentiamo e condividiamo questo forte richiamo all’educazione all’ambiente in una società che si fa multietnica.

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