Parco nazionale d’Abruzzo

PNALM 2Il parco nazionale d’Abruzzo è il Parco che storicamente ha rappresentato per l’immaginario collettivo l’idea stessa di conservazione della natura in Italia.

Per decenni ha costituito un punto di riferimento quando l’Italia tutelava una bassissima percentuale del proprio territorio nazionale. Ha dovuto subire, purtroppo, oltre che tentativi di speculazione edilizia e turistica, anche episodi di cattiva gestione che ne hanno in parte intaccato il fascino di area protetta di riferimento in Italia. Oggi, lentamente ma tenacemente, opera per superare questo periodo negativo della sua lunga e positiva storia di accorta conservazione degli habitat e delle specie dell’Appennino centrale. Dal suo patrimonio faunistico sono partite le reintroduzioni di camosci negli altri parchi che aderiscono al progetto “Appennino Parco d’Europa”.

Il territorio del Parco è costituito, principalmente, da un insieme di catene montuose la cui altitudine varia dai 450 ai 2.247 m. Le montagne del Parco alternano vette tondeggianti, tipiche dell’Appennino, a pendii dirupati e dal tipico aspetto alpino. Il paesaggio risulta così vario ed interessante. Il territorio è stato modellato dai fenomeni del glacialismo e del carsismo. Vi si osservano circhi glaciali nella parte alta delle vallate, depositi morenici e rocce lungo le valli. Il carsismo è presente con grotte, doline ed altri fenomeni.

Come per molti parchi nazionali “storici”, la sua nascita è collegata ad originarie riserve di caccia, nel caso specifico legata allo spostamento della corte sabauda a Roma. La storia, il clima, l’isolamento geografico costituirono le condizioni per la salvaguardia di ambienti naturali d’ecce- zione con la presenza di una fauna importantissima. All’inizio del Novecento qui erano presenti boschi secolari dove vivevano popolazioni vitali di orsi, lupi e camosci appenninici.

Il cuore del Parco è costituito dall’alta val di Sangro e dalle vallate che tributano le loro acque verso il fiume. Le montagne caratterizzano i luoghi: alte creste che si innalzano oltre i 2.000 metri e formano un bastione continuo ad ovest e a sud. Si legge il segno del ghiaccio tra queste valli. Il Quaternario ha scavato vallate, lasciando a ricordo circhi e morene glaciali. Le montagne, infatti, sono arrotondate e con contrafforti di roccia grigia, ampie vallate e pianori, strette gole, guglie rocciose e ghiaioni. Non mancano grotte e doline, inghiottitoi e lo scorrere di acque sotterranee. La cima più alta è quella del monte Petroso di 2.249 m, alla quale si aggiunge quella del monte Mar- sicano di 2.245 m e quella della Meta di 2.242 m. Praterie d’alta quota si sviluppano al di sopra del limite della vegetazione arborea.

Tutti coloro che si recano per la prima volta al Parco hanno quasi la sensazione “fisica” di entrare davvero in un luogo speciale, un vero e proprio santuario della natura selvaggia.

In tale contesto un ambiente di grande rilevanza scientifica è quello sub-montano, alle quote più basse, proprio quelle maggiormente modificate dal lavoro dell’uomo. Campi e frutteti, coltivi e pascoli, siepi e cespugli, abbandonati da tempo per le difficili condizioni in cui versa l’agricoltura di montagna, costituiscono uno straordinario ecomosaico che sta lentamente tornando ad uno stato di maggiore naturalità. Qui le condizioni di biodiversità sono più specifiche che in ambienti omogenei, contribuendo quindi a dare maggior valore agli ambienti naturali del Parco, per la presenza di più specie botaniche. Ma il Parco oltre alla natura d’eccezione, è caratterizzato anche dalle necropoli dei Marsi e dei Sanniti, dalle antiche vie selciate, dai santuari e dalle chiesette di campagna, dagli stazzi per gli ovini. Ovunque c’è il segno della presenza dell’uomo sin da epoche antichissime. Si legge nel paesaggio l’integrazione uomo-natura che era la cifra delle migliori civiltà contadine della nostra storia. Si legge l’antica maestria di non superare la capacità di carico dell’ambiente naturale, ma di integrarvisi, utilizzando gli interessi senza intaccare il capitale. Una lezione che si impara spesso a proprie spese nelle difficili condizioni della vita in montagna. I paesi del Parco parlano anche di transumanza e di emigrazione. Queste erano terre dove gli uomini non c’erano mai. Lontani da casa per otto o nove mesi l’anno. Con le pecore lungo i tratturi d’Abruzzo e Molise, sino alle grandi pianure del Tavoliere delle Puglie. Terre povere, dove l’alternativa era l’emigrazione.

È probabilmente ai Sanniti, antico popolo italico, che si deve l’inaugurazione della pratica della transumanza: saranno tuttavia i signori feudali Aragonesi che, nel Quattrocento, la regolamenteranno con un complesso sistema di leggi. Oltre venti secoli di frequentazione delle montagne, duemila anni di uomini e pecore in cammino per le creste ed i prati dell’Appennino. Cambiavano i regimi di governo e le aristocrazie, ma restava sostanzialmente immutata questa pratica pastorale: greggi di oltre un milione di capi, una forza immane che muove l’economia pa- storale sino al Novecento, quando la messa a coltura del Tavoliere e la caduta del prezzo della lana, riducono le pecore a poche decine di migliaia di capi. Oggi l’allevamento ovino, in nuove forme, è però ancora una voce significativa dell’economia abruzzese.

FLORA

Il Parco è ricoperto per circa due terzi da faggete. Ma non mancano boschi di orizzonte submontano, caratterizzati da carpini neri ed ornielli, aceri campestri e roverelle che formano boschi radi. Salendo di quota ecco che appaiono anche aceri minori e sorbi, meli selvatici sino a giungere a veri e propri boschi di cerro. Le foreste sono bellissime distese di aceri campestri e roverelle, cui si aggiungono in alcuni versanti laziali più freschi, i castagni. Nel sottobosco troviamo il pungitopo, ellebori, scille, anemoni, digitali e ciclamini, oltre a svariate specie di funghi. Nelle zone più calde ci sono anche boschi di leccio, con i loro associati: pruni, biancospini, rovi, rose selvatiche, aceri minori e terebinti. E poi le magnifiche faggete che caratterizzano in modo fondamentale il paesaggio del Parco. Le più belle sono quelle della val- le del Sangro, nella zona che scende da passo Godi verso il lago ed i paesi di Barrea e Civitella Alfedena, il vero e proprio cuore dell’area protetta. Ma bellissime faggete sono anche insediate nel versante laziale: vallone del Rio, valle Fischia, val Canneto; come in quello molisano: valle Pagana e sul versante orientale delle Mai- narde. Oppure a Villavallelonga, dove vegetano anche aceri secolari, nonché attorno a Scanno lungo il vallone del Carapale.

Nell’ombra scura della faggeta non filtra molta luce, anche grazie all’azione di tutela che ha salvaguardato queste foreste che, oggi, costituiscono una coltre fitta, compatta. Senza l’energia fornita dal sole, quindi, il sottobosco è piuttosto povero. Solo un vero e proprio tappeto di foglie marcescenti. Negli angoli più bui ed umidi crescono le pinguicole, le dentarie, gli anemoni e le stelline odorose. Metro dopo metro la faggeta si inerpica sino alle quote più alte, bordata da bassi cespugli di ginepro, e nella zona della Camosciara da una vegetazione relitta di pino mugo. Il tutto sino a giungere alle praterie d’alta quota che si stendono tra i ghiaioni ed i massi sino alle pareti calcaree coperte da nevi quasi perenni. Siamo intorno ai 1.800 m di quota, dove ogni pietra tra la tarda primavera e l’estate diviene un giardino fiorito. È il regno delle genziane e delle genzianelle, delle viole di Eugenia e delle aquilegie e dei botton d’oro. Sulle praterie erbose fioriscono anche i grandi giaggioli dell’Iris marsica, un endemismo la cui scoperta è degli ultimi anni, che vegeta in compagnia di scille e crochi, orchidee e maggiociondoli, gigli di san Giovanni e gigli martagoni. Vi vegetano, inoltre, numerose e variopinte orchidee, delle quali la più bella, grande e rara è senz’altro rappresentata dalla scarpetta di Venere o pia- nella della Madonna.

Altra presenza botanica da segnalare è il pino nero di Villetta Barrea. Sugli speroni di roccia della Camosciara ci sono alcuni esemplari che da più di 500 anni sfidano neve e vento, forti di essere sopravvissuti alla scure dell’uomo. È una conifera piuttosto rara sull’Appennino, specie relitta risalente probabilmente al Terziario: si tratta di una varietà esclusiva del Parco. Tra le conifere spontanee troviamo, inoltre, il pino mugo, altro relitto glaciale che occupa la fascia vegetazionale tra la faggeta e la prateria di altitudine, localizzato prevalentemente nella zona della Camosciara.

Altra peculiarità del Parco è rappresentata da una piccola stazione di betulle, localizzata a Coppo Oscuro di Barrea. Si tratta di una specie relitta, tipica delle epoche glaciali quaternarie, che testimonia la vegetazione un tempo predominante sull’Appennino. Queste bellissime foreste non hanno avuto, però, sempre vita facile. Tra il 1957 e il 1967, infatti, nel Parco furono tagliate oltre 650.000 piante d’alto fusto. Dopo questi anni di sfruttamento indiscriminato, oggi le foreste del Parco vengono conservate accuratamente al fine di riportarle, ove possibile, alla loro struttura originale.

Oltre il limite del bosco si incontrano il ginepro nano, di forma prostrata, nonché relitti della brughiera nordica quale il mirtillo e l’uva ursina. Le praterie di altitudine, insieme a prati e radure, ricoprono oltre il 30% della superficie complessiva del Parco. Sono tipiche della parte alta delle montagne, dove occupano creste e sommità intorno ai 1.900-2.000 metri di quota. Qui vegetano genziane, genzianelle, primule, ciclamini, viole, anemoni, scille, gigli, orchidee, sassifraghe, ranuncoli, asperule, dentarie, ofridi, ellebori, epatiche. Ma il Parco riserva sempre sorprese: l’elenco di oltre duemila specie floristiche, infatti, è in continuo aggiornamento.

FAUNA

Nonostante la bellezza dei suoi panorami e delle sue foreste, è alla fauna che tutti pensano quando la men- te va al Parco. Lupi ed orsi, aquile reali e camosci appenninici, sono spettacoli che da soli valgono più e più vi- site. L’orso è una delle specie di carnivoro ad ampia diffusione geografica, seppure così difficile da avvistare (a meno che non decida di far due passi nei paesi, come a volte avviene!). Il suo regno è la faggeta integra, dove tra le rocce che si fanno impervie, le radici ed i cespugli più folti, si apre la sua tana. Solo queste grandi foreste lo hanno sin qui salvato dalla scomparsa per causa dell’uomo e della trasformazione del territorio. Oggi nell’Appennino centrale rimangono poche decine di orsi, che si muovono in un’area che comprende Abruzzo, Lazio e Molise, con sconfinamenti nelle regioni confinanti, in particolare Marche ed Umbria. L’escursionista che si addentri nelle zone più frequentate dall’orso bruno marsicano, come la valle Jannanghera, la val Fondillo o il Ferroio di Scanno, ha poche probabilità di avvistarlo, anche se a volte capita di indovinarne la presenza dai segni del suo passaggio. Ad occhi acuti ed attenti non sfuggono impronte e graffi, fatte e residui di cibo, in attesa del colpo di fortuna che sempre capita a chi frequenta la natura selvaggia con umiltà e spiritualità. E può anche capitare che l’orso lasci la foresta per visitare i frutteti o addirittura i centri abitati. Sono queste le delicate situazioni che il personale del Parco è chiamato a gestire per tutelare la gente e la fauna selvatica, come efficacemente viene fatto da ormai quasi un secolo.

Quelle stesse grandi foreste che ospitano il plantigrado, han fatto giungere sino a noi anche il lupo ed il picchio dorsobianco, scomparsi da decenni da altre località dell’Appennino centrale.

Il lupo è una delle specie che maggiormente accende la fantasia del- la gente, protagonista di storie affascinanti, fantasiose o impressionanti. Negli anni ‘70, momento tra i più bui nella storia della conservazione della natura in Italia, la popolazione complessiva della specie era di circa 100 individui in tutto il Paese. Oggi se ne stimano numeri molto più elevati, diffusi sino alle Alpi centrali e non solo sugli Appennini, dove la specie si è salvata dall’estinzione. Nel Parco esistono nuclei stabili che si riproducono con regolarità.

Il camoscio appenninico, che costituisce il vero e proprio tratto distintivo del Parco, si è salvato dall’estinzione causata da una caccia senza limiti, proprio grazie alle rocce inaccessibili ed ai boschi della Camosciara, uno dei luoghi più belli di tutta l’area protetta. Il lavoro generoso della gente del Parco e una gestione accorta hanno fatto sì che oggi la specie sia stata reintrodotta in alcuni parchi limitrofi, concludendo una grande operazione di salvaguardia della specifica biodiversità dell’Ap- pennino centrale.

E poi c’è la lince, di cui tanto si è discusso. Alcuni esemplari sembrano popolare le foreste del Parco dove le sue prede, rappresentate da ungulati di piccola e media dimensione ed altri mammiferi, non mancano. Si tratta di un animale bellissimo la cui comparsa nel Parco è stata segnata da molte polemiche, legate ad una sua probabile “fuga dalla cattività”, aiutata da mani umane.

Ormai scomparsa dal territorio del Parco è la lontra, predatrice per eccellenza degli ambienti d’acqua dolce, per la caccia senza quartiere che le è stata data, nonché per l’incessante modifica dei corsi d’acqua abruzzesi, in gran parte cementificati.

Altre testimonianze della fauna delle foreste sono l’astore e lo sparviere, la poiana e la balia dal collare, il rampichino ed il picchio rosso mezzano, il picchio rosso minore ma anche la rosalia alpina e la Chrysochloa sipari, due insetti rari e localizzati che testimoniano anche della ricchezza del mondo degli invertebrati tra la fauna dell’area protetta.

Numerose sono le specie di uccelli che vivono nel Parco, tra cui l’aquila reale, presente con due o tre coppie, facile da avvistare mentre sorvola creste, valli e vette alla ricerca di prede, rappresentate non solo da piccoli mammiferi o uccelli, ma anche da giovani camosci. Di notte si possono ascoltare i richiami dei rapaci notturni: la civetta, l’allocco ed il barbagianni. Molti altri sono gli uccelli presenti, tra cui: la ghiandaia, la cinciallegra, il picchio verde e l’upupa. Presso i corsi d’acqua vivono il merlo acquaiolo, la ballerina gialla, il germano reale e molti altri uccelli sia stanziali sia migratori, come l’airone cenerino. In alta montagna si incontrano il gracchio alpino ed il gracchio corallino, mentre volteggiano in gruppo con spettacolari voli acrobatici; frequente anche il fringuello alpino ed il culbianco, nonché una specie di galliforme rupestre di grande interesse, la coturnice.

Per i rettili si segnalano: il biacco, la vipera comune e la più rara e localizzata vipera dell’Orsini, il colubro liscio, l’orbettino e la biscia dal collare.

GEOLOGIA E GEOMORFOLOGIA

La struttura geologica prevalente è calcarea, come in gran parte dell’Appennino. Sono calcari del Mesozoico, ma anche dolomie nelle impervie pareti della Camosciara, quindi rocce argillose ed arenacee nelle parti più basse lungo le valli. Queste rocce, formate da sedimenti depositatisi centinaia di milioni di anni fa sul fondo marino, con pareti di considerevole imponenza sul monte Meta, sul monte Petroso e nella bellissima e molto conosciuta conca della Camosciara.

A rendere particolare il paesaggio geologico del Parco, però, sono le doline carsiche. Cavità a cielo aperto che si sono formate a causa della dissoluzione chimica del calcare operata dagli agenti atmosferici. Nel Parco ve ne sono a centinaia. Le più ampie e spettacolari raggiungono i 30 metri di diametro ed i 10 di profondità. Questi veri e propri catini per giganti incidono i pianori erbosi della Macchiarvana e di Campo Rotondo, il crinale della serra Traversa e della serra del Re, nonché i versanti laziali della serra delle Gravare, delle Mainarde e della Meta.

Non va dimenticato che queste montagne calcaree, a causa della elevata permeabilità della roccia, sono il serbatoio sotterraneo di notevoli risorse idriche, che sgorgano come sorgenti ai piedi delle montagne e che alimentano i corsi d’acqua, oltre che le popolazioni e le greggi che vivono in un ampio territorio esterno al Parco.

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